giovedì 10 novembre 2016

LA RAGAZZA DEL TRENO - LA RECENSIONE SENZA SPOILER


Recensione che arriva in leggero ritardo per vari casini che non volete sapere, ma come promesso su Faccialibro ci siamo, arriva la rece de LA RAGAZZA DEL TRENO, contaminata in maniera virulenta da qualche giudizio a titolo assolutamente gratuito anche sul romanzo di Paula Hawkins dal quale ha avuto origine il tutto. Missione principale: evitare gli spoiler.
Doppia Rece quindi? Una e mezzo, via.



DUE SETTIMANE FA
Vengo ipnotizzato dal trailer visto per la prima volta in sala, rimango colpito principalmente dall’atmosfera di mistero e disperazione che trasudava dall’incipit in voice-over di Emily Blunt e da alcune inquadrature molto ben costruite, tanto da indurmi ad attenderlo con discreta scimmia.
Scimmia abbastanza agitata da convincermi nell’attesa a recuperare il romanzo da cui è stato tratto, nonostante fuori ci fosse la fila di gente che mi diffidavano dal farlo. Gente fidata, peraltro.
Tre giorni dopo l’avevo finito ed ero pronto al peggio: si sa che un film tratto da un romanzo che hai letto ti delude sempre, a maggior ragione se quel romanzo l’hai pure apprezzato.


OGGI
Ho visto il film e finalmente posso parlarne.
LA RAGAZZA DEL TRENO è una vicenda drammatica raccontata in modo furbo da tre punti di vista, è la storia di tre donne diversissime tra loro accomunate però da una sola, macroscopica caratteristica: l’infelicità congenita.
Questa infelicità porta la protagonista Rachel a idealizzare la bionda Megan, donna dalla vita apparentemente perfetta che ogni giorno “spia” dal finestrino del treno e della quale invidia la felicità coniugale, felicità che un tempo era sua, prima del divorzio dal marito, ora sposato con Anna.
La vita di Rachel è triste e monotona: viaggia in treno, vede Megan e rosica come un castoro col bruxismo pensando alla nuova famiglia dell’ex marito, beve come una spugna, si deprime, beve un altro po’, tormenta telefonicamente la famiglia dell’ex, rosica e beve, va a dormire e ricomincia da capo.
Questa è la routine, fino a quando per caso non vede Megan baciare un altro uomo.
Per poi scoprire il giorno dopo che Megan è scomparsa nel nulla, e che non ricorda nulla della sera prima.



Diciamolo subito onde evitare fraintendimenti: la forza de LA RAGAZZA DEL TRENO cartacea è proprio nel racconto alternato tra presente e immediato passato, tra il lasciar intendere al lettore un dubbio, un sospetto che lentamente si fa strada diventando certezza, confondendo più volte le acque in modo intelligente.
Non è tanto la storia in sé (che non è affatto male, anche se non è niente di nuovo) a rendere LA RAGAZZA DEL TRENO un romanzo avvincente, ma proprio la meccanica ad incastro dei tre punti di vista col pedale calato sull’introspezione spinta a dare vita ad un intreccio che, per quanto semplice, tiene inchiodato il lettore dall’inizio alla fine.
Il vero problema era uno: come tradurre su pellicola un tipo di racconto come questo, in qualche modo personale, incastrandolo a forza in un thriller pettinato come quelli che al cinema vanno per la maggiore negli ultimi tempi? Purtroppo, è un problema che per buona parte è diventato IL problema.



Non voglio fare un paragone tra romanzo e film, sia chiaro, ma IL problema si ripercuote inevitabilmente sul secondo in maniera non poco marcata: nel cambio di media si deve inevitabilmente limare l’eccessività descrittiva del romanzo, si tagliano e accorpano personaggi, si fa parlare spesso le immagini piuttosto che dare sfogo ai pensieri dei protagonisti, ma se c’è un fattore di cui non dimenticarsi mai è il ritmo.
LA RAGAZZA DEL TRENO cinematografica ha una regia ottima dal lato prettamente visivo, è stracolmo di inquadrature studiate molto bene e dettagli evocativi, ma si perde via fin troppo facilmente nella costruzione del dramma a causa di un ritmo lento (quando non addirittura comatoso) che cozza inevitabilmente sia col romanzo ispiratore sia con l’aura da thriller emozionale che tanto vorrebbe avere, riuscendoci solo in parte.
Il primo paragone che viene alla mente guardando il film di Tate Taylor, ma anche leggendo il romanzo se è per questo, è sicuramente

*

in maniera anche parecchio evidente, peccato che LA RAGAZZA DEL TRENO pur facendo degnamente parte della combriccola sopracitata sia decisamente quello meno riuscito.







La tensione è costruita in modo troppo scostante fino a sconfinare nella noia, e se a metà romanzo capisci chi sia il colpevole, nel film non ti viene nemmeno il dubbio, dato che il personaggio di Lisa Kudrow (mitica Phoebe di Friends) sembra piazzato lì proprio per spiegarlo anche agli ultimi interdetti che non c’erano ancora arrivati rovinando quel dubbio al quale si accennava prima e lasciando il finale crollare miseramente su una “resa dei conti” banale e telefonatissima, il ché in un thriller o sedicente tale fa cascare abbastanza le braccia, diremo.
Come nel romanzo, tutta la baracca viene sorretta da queste tre donne, personaggi autolesionisti fino al fastidio e incredibilmente fragili, che con le loro scelte discutibili a fiotto continuo portano la vicenda a compimento, solo che per quanto Emily Blunt sia come sempre brava nei panni di un personaggio non semplice, le altre due donne in questione (Haley Bennett femme-fatale monoespressiva e Rebecca Ferguson casalinga disperatissima) riescono a dare nuovi significati al concetto di “essere completamente fuori parte”, mentre gli uomini fanno da tappezzeria (attiva eh, ma pur sempre di tappezzeria si tratta).







Buono e appropriato il comparto musicale che poi però si dimentica abbastanza in fretta, ottima la fotografia che purtroppo paga la lentezza della messa in scena.
Mi rendo conto che tutto questo potrebbe sembrare una stroncatura, ma vi assicuro che lo è solo in parte: LA RAGAZZA DEL TRENO, nonostante tutti i suoi limiti, resta un buon thriller che si lascia guardare e apprezzare per come gestisce la storia a incastro e il dipanarsi progressivo della risoluzione, gettando ombre su tutti i protagonisti trascinandoli costantemente in un’atmosfera d’incertezza e sfiducia reciproca.
Manca però di ritmo, il che non è poco, e di quella sensazione di ansia crescente che un buon thriller dovrebbe saper trasmettere e mantenere alta fino al suo picco emotivo finale, cosa che qui purtroppo non accade, ed è un peccato avendo alle spalle un bestseller come quello di Paula Hawkins (che l'anno scorso a quanto pare si sono letti tutti tranne me), perché magari in altre mani sarebbe potuto uscirne un film molto più compatto.




IN BREVE: Storia malata, stracolma di personaggi autolesionisti e profondamente infelici, un buon intreccio raccontato da diversi punti di vista e sfasato temporalmente minato da un ritmo fin troppo lento e prolisso.
Trasposizione non facile visto il materiale di partenza, ma sul genere si è visto molto meglio.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO:
6 ½



















*SPOILER!!

Ok, come non detto, volevo fare la sboronata col tasto SPOILER ma niente, Blogger mi odia, quindi i titoli sopracitati ve li piazzo qui, che ovviamente sono...ehm...beh, SPOILER:
Dicevamo, il film (e il romanzo prima di lui) al primo impatto, sia come tematiche che come ambientazione suburbana piena di bastardi traditori e mogli zoccole che neanche una puntata di Uomini e Donne, prende a piene mani dall’ottimo Gone Girl – L’amore Bugiardo di David Fincher, ma diversi elementi vengono anche da In Trance di Danny Boyle, da Le Verità Nascoste di Robert Zemeckis e da Match Point di Woody Allen. Un caso? Alla Hawkins piace molto il cinema di genere? Non lo sapremo mai.
Quindi, se sapete fare 2+2 avrete già capito cosa succede nel film e per quale motivo doveva per forza di cose essere messo sotto SPOILER.
Se avete letto preda della curiosità e vi siete rovinati così il film, beh, io vi avevo avvertiti ;)















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