mercoledì 10 febbraio 2016

IL MIO 2016 AL CINEMA – GENNAIO: UN BUON INIZIO

Mi piangeva il cuore per l’aver praticamente abbandonato la Blogteca per un anno.
Mi rendo conto che sono una brutta persona, sono sempre più pigro (sarà l’età), ma si metta agli atti che parte della colpa è di Playstation4 e di Netflix che nell’ultimo anno hanno monopolizzano il mio tempo, e pirla io che non riesco a uscire dal gorgo.
Avrei voluto scrivere diverse volte su un film, una serie, un gioco, un libro, ma ogni volta un nuovo film/gioco/serie/libro si rubavano il mio tempo, e…
Beh, se state leggendo, vuol dire che ho trovato il momento, il guizzo, la voglia, e memore della fatica nello stilare i listoni della morte sul cinema dell’anno precedente ho deciso di accorciare i tempi.
Ed ecco un breve compendio di tutti i film visti in sala di questo Gennaio appena passato, pronti?
Sorprese Inside



Lo puntavo da quando, mesi fa, mi ritrovai davanti al trailer in sala: sarà stato l’affetto che ho sempre provato nei confronti il romanzo, sarà stato per la questione del doppio racconto concatenato, ma fu amore a prima vista.
Con aspettative così alte potevo benissimo essermi fatto un’idea sbagliata, potevo essermi fatto trascinare dall’amarcord, potevo rimanerci male ma di un male che guarda…
Per fortuna c’avevo visto giusto: Il Piccolo Principe di Mark Osborne è una vera meraviglia, per gli occhi e per il cuore, una storia delicata e bellissima che ingloba il romanzo originale, lo attualizza senza snaturarlo e ne trae un racconto di formazione ancora più toccante e riuscito.
Tecnicamente non siamo ai livelli mostruosamente alti dei film Pixar, intendiamoci, ma la realizzazione è comunque incantevole, a maggior ragione tenendo conto della doppia resa di stili in CGI (realtà) e stop motion (racconto), che veicola e mescola gli avvenimenti in modo magistrale.
L’essenziale è invisibile agli occhi recita una delle frasi più celebri del romanzo di Antoine de Saint-Exupéry, e infatti ciò che davvero porta il film a spiccare definitivamente il volo è una terza parte che il trailer, saggiamente, non mostrava: ad un certo punto i due racconti si fondono e ciò che ne scaturisce è una meravigliosa riflessione sulle difficoltà della crescita, sulla perdita dell’innocenza e in generale sul modo in cui la grigia società attuale costringa a crescere dimenticando chi siamo, la gioia e la spensieratezza, la perdita dell’innocenza.
Magari mi attirerò le ire dei fan integralisti ma, detto fra noi, a parità di temi trattati Il Piccolo Principe piscia tranquillamente in testa al pur buon Inside Out. Ma tranquillamente, proprio.
Non poteva iniziare meglio il mio 2016 al cinema.
IN BREVE: Una storia più matura e meno commerciale di tanti prodotti americani, permeata di una magia unica, narrata splendidamente.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 9



Sono andato a vedere l’ultimo film di Spielberg con le migliori intenzioni, giuro.
Mi avevano raccontato di un procedural molto particolare, fuori dai classici schemi, con un Tom Hanks mostruoso e una storia d’ampio respiro, e se c’è una cosa che ho imparato nella mia lunga militanza al cinema, è che fondamentalmente le buone intenzioni non servono grossomodo a una ceppa.
Va detto che partivo da una base storica, nel senso che avendo a lungo letto/studiato/spulciato tutto il possibile su JFK mi ero già imbattuto nella vicenda riguardante Francis Gary Powers e soprattutto nella figura di James B. Donovan, questo più che altro per il lavoro fatto tempo dopo nel post Baia dei Porci.
E cos’ho trovato? Ho trovato un Tom Hanks davvero in parte, più che in altre occasioni; ho trovato un ottimo Mark Rylance, interprete della spia russa Rudolf Abel, e… per il resto, un film molto, troppo sopravvalutato.
Innanzitutto chiariamoci: NON è un procedural, neanche uno fuori dagli schemi. Ma ci può stare, in effetti più che in tribunale la vicenda viene trattata sottobanco e risolta fuori dall’aula.
Colpisce un’apprezzabile resa asettica del periodo storico e del contesto in cui si svolge il tutto, ma il vero problema è che la storia sembra trascinarsi, nonostante di suo sarebbe potuta essere proposta in maniera molto più intrigante. Vogliamo fare un esempio, restando anche in ambito Kennedy? JFK – Un caso ancora aperto di Oliver Stone. Drammatico, incalzante, storicamente preciso (fedele anche sulle varie teorie), mai noioso. Tutto un altro pianeta.
E’ inutile, per quanto ci provi non riesco a digerire lo Steven Spielberg degli anni 2000: quello di A.I.La Guerra dei MondiMunich, quel micidiale monumento all’orchiclastia di Lincoln, è un cantastorie stanco e confuso, maledettamente prolisso e incapace di far scattare la scintilla che che un tempo dava vita a capolavori più alla portata del suo modo di narrare. Quanto mi mancano gli anni 80/90…
PS= Sapere che Spielberg dirigerà l'adattamento cinematografico del romanzo nerd per eccellenza dell'ultimo decennio (Ready Player One) mi fa venire un latte ai coglioni che non vi dico...
IN BREVE: Un film ampiamente sopravvalutato, una vicenda interessante che doveva (e poteva) essere raccontata decisamente meglio. Due ottimi interpreti non bastano. Sterile.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 7



Credo sia la prima volta che parlo di un film di Checco Zalone (ed è anche la seconda che mi capita di vederne uno) e non so da dove cominciare.
Il personaggio Zalone, ai tempi di Zelig, non l’ho mai seguito e mi stava pure un po’ sulle palle, diremo.
Poi ho visto Sole a Catinelle e non ricordo il tempo di aver riso tanto per un film italiano.
Questo Quo Vado? pur giocando nello stesso campionato è un animale diverso. Nonostante nel precedente vi fossero già diversi richiami alla situazione sociale e politica del momento, quest’ultimo film è essenzialmente la vera commedia all’italiana del 2000. E no, non sto parlando di Bénfi che si strozza il nano guardando da un buco della serratura, o del primo Ciavarro o del Pierino di Jean Todt.
Checco Zalone (con le debite proporzioni e considerato il periodo temporale, non mettetemi al rogo) fa oggi quello che faceva il grande Alberto Sordi nei 50/60 e Paolo Villaggio col suo Fantozzi nei 70, ossia parlare dell’italiano medio nella sua contemporaneità, mettendone alla berlina l’impatto sociale, l’egoismo, le (gravi) lacune culturali e la situazione sociale dove il suo “Checco Zalone di turno” si muove.
La sacralità del “posto fisso”, l’indole da mammone viziato che a 40 anni non molla le comodità della vita coi genitori e che fugge dalle responsabilità di un matrimonio che non s’ha da fare, tutti temi “caldi” in un paese ormai ridotto a macchietta in quanto a credibilità.
Ne esce un film divertente e permeato di una comicità sempre sopra le righe ma mai volgare (a parte un paio di passaggi forse), che più che provocare la butta sulla battuta sferzante, ma il suo bel risultato tra incassi e critica se l’è portato a casa, è evidente che all’italiano medio piaccia farsi amabilmente prendere per il culo. E’ sempre stato così, d’altra parte.
IN BREVE: Diventare campioni d’incassi e di risate prendendo per il culo lo spettatore medio che ti paga per continuare a farlo. Vittoria al quadrato e masochismo fuori scala.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 8



Diciamolo subito. Non è un film per tutti.
Più che altro non è un film da guardare intanto che si mangia una pizza davanti alla tv, non è una pellicola da prendere sotto gamba: è una di quelle che richiede attenzione dal primo all’ultimo dei suoi 130 minuti, dove se uno si distrae anche per un attimo rischia di perdere il filo e ciao.
La Grande Scommessa è un film che si svolge nel mondo finanziario, stracolmo di termini tecnici, dove però non è necessario essere competenti in economia per capirci dentro qualcosa: la forza de La Grande Scommessa è nella narrazione e nella sua capacità di vomitare sullo spettatore centinaia di nozioni tecniche e, nonostante questo, lasciarsi seguire in maniera esemplare.
Siamo all’alba dell’esplosione della crisi finanziaria USA del 2007-2008, dove un gruppo di persone riesce ad intuire la situazione critica del mercato immobiliare statunitense, degenerata a livelli catastrofici e costantemente negata da Wall Street, e ad approfittarne traendone profitti impensabili scommettendo contro il mercato.
Il film di Adam McKay è decisamente una ventata s’aria fresca nel panorama cinematografico, essendo a suo modo un mix riuscitissimo tra il film di denuncia, documentario e biografico, il tutto portato avanti dal tocco brillante del regista e sceneggiatore, che riesce a rendere interessante una sequenza concentrica di tecnicismi sparata a mille.
Fondamentali per la fruizione del tutto da parte anche dei non addetti ai lavori, un cast perfetto guidato dal sempre ricercato Christian Bale e soprattutto da un intenso Steve Carell, che si riconferma attore a tutto tondo perfetto anche in ruoli drammatici.
La Grande Scommessa si iscrive in quel limbo strano dove vive solo lui, tra un Ocean’s Eleven drammatico e un Wolf of Wall Street senza droga e puttane, funzionando come un orologio svizzero.
IN BREVE: Thriller finanziario, tecnico fino alla morte ma perfettamente fruibile da chiunque. Meccanismo impeccabile che non manca un colpo.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 8 ½

Ed eccoci qua, al tanto discusso e odiato e amato e laqualunque Revenant di Alejandro González Iñárritu.
Togliamoci subito il dente del giudizio: a me è piaciuto, e neanche poco.
Perché io la meno sempre con “la storia”, “la sceneggiatura”, poi un bel giorno arriva Iñárritu e non dicendo niente a nessuno e si permette di tirare fuori un bel film con una trama che potrebbe essere scritta su un tovagliolino da bar. Lasciandoci spazio sufficiente pure per qualche disegno osceno.
La trama è infatti la storia più vecchia del mondo, ma per una volta conta di più il contenitore del contenuto: perché la vendetta è un piatto che va consumato freddo, e il freddo non manca in Revenant.
Ma cosa rende un film sulla carta semplice una vera esperienza cinematografica, a parte l’estremo tentativo di Leonardo Di Caprio di portarsi a casa quella fottuta statuetta di merda per il solo gusto di pisciarci sopra e usarla come fermaporta? Una regia mostruosamente impeccabile, e una fotografia da brividi, che non lo chiedono l’oscar: lo ESIGONO.
Revenant non è un film perfetto, nessun film lo è fino in fondo, ed è decisamente crudo in molti momenti, perfino quasi splatter in altri, e la durata non lascia certo indifferente… solo che appena comincia vieni scaraventato in mezzo al massacro come un reporter di guerra, poi passi a una puntata di Bear Grylls con esiti molto (molto) peggiori, e il bombardamento d’immagini/suoni/emozioni è talmente frastornante che
non hai materialmente il tempo di annoiarti, perché sei aggrappato alla pelle dura di quest’uomo che non vuole saperne di morire, soffri con lui, t’incazzi per quello che gli hanno fatto e resti attaccato alla sua vita con le unghie e con i denti, e lì ti rendi conto che Iñárritu ha già vinto.
Perché per raccontarti una storia che più semplice non si può, ti ha fregato con la qualità: quando regia, fotografia e recitazione (bravissimo Di Caprio, ancora meglio Tom Hardy) sono ai massimi livelli, se giochi bene le tue pedine anche 2 ore e 45 volano in un niente.
IN BREVE: Una storia minimale di vendetta raccontata in modo splendido. Una formidabile lezione di cinema. Si, ok, l’orso è finto e si vede.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 8

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