venerdì 29 aprile 2016

IL MIO 2016 AL CINEMA - APRILE: DOLCE RECUPERARE



Mese di grandi recuperi corredato da una stronzatona divertente, direi che poteva andare peggio.
Come al solito,
[SPOILER] a pioggia.

Io, di base, sono un grandissimo appassionato di film d’inchiesta.
In realtà amo un po’ tutto il cinema, spazio dalla fantascienza al procedurale, dalla commedia al thriller, dal supereroistico al dramma, ma solitamente i film d’inchiesta, quando basati e possibilmente molto attinenti a fatti realmente accaduti, accendono in me qualcosa di forte, come se ampliassero il mio spettro emotivo.
Sarà per questo che ho adorato
La Grande Scommessa, che amo alla follia JFK di Oliver Stone e praticamente qualsiasi cosa partorita dalla mente di quel simpatico ciccione di Michael Moore.
Spotlight è un team investigativo di quattro persone in forze al Boston Globe specializzato in inchieste a lungo termine, alle prese con l’indagine più importante della sua storia.
La notizia dell’abuso di un bambino da parte di un prete sarà la scintilla che riuscirà ad accendere una questione tragicamente più ampia, arrivando a scoprire un mondo sotterraneo di molestie e violenze su minori che coinvolgerà più di 70 sacerdoti nella sola Boston e portando alla luce il coinvolgimento e la tacita complicità delle alte sfere del clero, delle autorità e dei media, che porterà la squadra a vincere nel 2003 il Premio Pulitzer per il pubblico servizio.
Quello che serpeggia per tutto il film è un clima d’incertezza e curiosità, un clima malato nel quale i vari protagonisti conducono un’indagine delicatissima nel cuore pulsante del mondo ecclesiastico americano.
La semplicità e la didascalità delle immagini si contrappone continuamente (e volutamente) al dolore immenso che scaturisce delle dichiarazioni delle vittime e dai continui passi avanti nell’indagine, convogliando perfettamente l’indignazione dello spettatore e ponendolo davanti alla questione in maniera quasi giornalistica.
In certi momenti, sembra davvero di avere davanti agli occhi un documentario, talmente risultano curati lo stile espositivo e la concatenazione degli eventi, studiati a tavolino per accompagnare lo spettatore passo dopo passo nella vicenda senza sensazionalismi ed evitando un’altrimenti facile spettacolarizzazione del dramma.

Il cast è di prim’ordine, Mark Ruffalo e Michael Keaton spiccano su tutti, ma anche Rachel McAdams e John Slattery se la cavano egregiamente, instillando credibilità al team e alle vicende che ruotano loro attorno. Da non dimenticare un ottimo Stanley Tucci, un po’ incolore invece Liev Shreiber.
IL CASO SPOTLIGHT deve moltissimo alla sintonia tra i membri del cast e all’approccio quasi documentaristico della narrazione, oltre al coraggio nel mettere in scena una pagina di storia moderna tanto delicata, motivi che gli hanno valso due tra gli Oscar più ambiti (Miglior Film e Miglior Sceneggiatura Originale 2016), certamente meritatissimi.
Strano che in Italia sia passato un po’ in sordina… #chissàperchè

IN BREVE: Film denuncia dal tratto documentaristico, appassionante e diretto, su una delle questioni più spinose della nostra attualità. Ottimi interpreti ben diretti. Per non dimenticare.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 8



Montagne russe. Un fottuto giro sulle montagne russe. Anzi, un divertente giro di un’ora e mezza onestissima sulle montagne russe più fuori di melone che esistano, che tiene incollati alla poltrona dall’inizio alla fine con una storia semplicina-sempliciò, e che si permette di tirar fuori addirittura un paio di plot twist non male in mezzo a quella centrifuga di sparatorie, acrobazie, inseguimenti e gente morta malissimo.
I limiti di un’operazione del genere sono evidentissimi fin da subito: parlare di film è quantomeno pretestuoso, HARDCORE! è un giochetto che tira la corda più che può ma che ha il pregio di non stancare, a patto di essere fan di vecchia data dei vari
COD, Medal of Honor e compagnia sparante, ma anche di un certo cinema casinista e particolarmente cazzone tipico degli anni ’80, che si sposa perfettamente con le pellicole più sceme e divertenti dei vari Stallone/Schwarzenegger/Willis/VanDamme e amici di carneficina.
Storia semplicina-sempliciò, dicevamo: il protagonista viene massacrato e leggermente accoppato nei titoli di testa più malati visti negli ultimi anni (ciao
Deadpool), che pure Vigo il carpatico dopo essere stato avvelenato, pugnalato, impalato, impiccato, sbudellato, affogato e squartato era messo meglio, ma ehi, qui subentra la moglie, che in quanto modella/ingegnere cibernetico (#credibilissssimaproprio) lo ricostruisce, gli infila una batteria nel petto, un paio di arti robotici e vai amo’, accoppali tutti!

Ovviamente la moglie si fa rapire in tempo zero e lui per ritrovarla finisce per sterminare una roba tipo la popolazione del Belgio. Un bel massacro in prima persona di un’ora e mezza, finale da vero duro ‘80s incluso nel prezzo.
Del protagonista muto non si può parlare, essendo nella teoria lo spettatore stesso (con molta fantasia) a vestirne i panni, e oltre alla moglie Jennifer Lawrence tarocca e alle centinaia di morti ammazzati senza nome si può effettivamente parlare di cast risicato: il cattivo di turno è proprio uno stronzo bello sadico e dotato pure di poteri ESP (oggi si porta), il compagno di battaglia è un simpatico e poliedrico Sharlto Coplay (
A-Team) impegnato a mettere in mostra tutta la sua follia, e resta ancora da capire quanto debba essere alla canna del gas il buon Tim Roth per aver accettato di partecipare a questa fiera del LOL.
Nel dubbio uno saggio si porta i travelgum al cinema, che sai mai, invece l’inizio lento (5 minuti bastano? bastano) dà all’occhio la possibilità di abituarsi e di riuscire a non rivedere la cena di Pasqua, ma va anche detto che negli ultimi 10 anni di FPS ne ho mangiati a vagonate, sarà anche per questo che sono riuscito a digerire HARDCORE!, in tutti i sensi, ivi comprese tutte le “citazioni” inserite a calci tratte dal campionario basic di un
COD laqualunque, dalla sequenza col cecchino alla sparatoria dal veicolo in movimento, dai numeri da parkour alle cadute da altezze impossibili, dalle schermate rosse oddiostopermorire al lancio di coltelli, e così via.

Ecco, c’è da dire anche che più che la nuova frontiera del cinema siamo più dalle parti della prossima frontiera del gaming, tenendo conto del fenomeno-fuffa VR in prevedibile esplosione a breve nel settore videoludico: durante la visione del film in sala il mio pensiero saltava costantemente da “con un visore VR chissà che esperienza sarebbe!” a “datemi un pad!” ma non credo riuscirò mai a provare l’esperienza: ho troppa, troppa paura di rivedere la cena di Pasqua.
 
IN BREVE: Montagne russe in prima persona, tanti morti ammazzati, situazioni da FPS a carrettate e divertimento ignorante anni ’80. Imperdibile per videogiocatori navigati, travelgum per tutti gli altri.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 7




Degrado. La prima parola che ti viene in mente guardando LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT è “degrado”.
Degrado di una società, degrado dell’individuo, degrado di un quartiere, degrado fisico e psicologico, del protagonista e di tutti i disperati che gli ruotano attorno, che intaccano la sua scorza, che lo spingono al cambiamento, che lo rendono quello che non vuole (e che non sa ancora di) essere: un eroe.
L’evoluzione di un eroe reticente che viene dai bassifondi, da un mondo sporco e malato costellato di situazioni così freddamente attuali da sembrare irreali, ma raccontate talmente bene che anche l’inserimento di elementi fantastici finisce per risultare realistico, credibile, come mai (e dico mai) succede nei più ricchi e monumentali film di genere americani, Marvel Movies su tutti.
E non è per sputare senza ritegno nel piatto dove ho mangiato e mangio tuttora (- 4 giorni a Civil War!!), non è per leccare il culo ad un cinema italiano del quale sono notoriamente un solido detrattore, ma la realtà è lì che parla da sola.
La realtà è LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT, e LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT è una dannata meraviglia.
E’ la pellicola che noi italiani, noi fumettari degenerati, noi spettatori troppo americanizzati stavamo aspettando da una vita, e che pensavamo di non vedere mai.
E invece bastava un regista capace come Gabriele Mainetti (alla sua prima esperienza cinematografica dopo dieci anni di gavetta come regista di corti) e un cast di validi talenti per confezionare un gioiellino di cui sentiremo parlare a lungo, e che diventerà da ora in avanti il metro di paragone per la produzione di genere nel nostro paese. E non solo.
Perché il successo di un film fantastico prodotto nel nostro paese e realizzato completamente da un cast tecnico/artistico italiano apre nominalmente tutti gli sbocchi possibili e immaginabili per il nostro cinema, perché torni ai fasti di una volta senza puntare per forza su panettoni che scoreggiano e gente che si piange addosso.
LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT ha dimostrato chiaramente che siamo in grado anche noi di realizzare qualcosa di grande, ma bisogna trovare gente che investa nel nostro cinema, nei nostri giovani registi e attori.
Attori come Claudio Santamaria che mette su 20 kg di massa per la parte (da bravo Christian Bale de noantri) e regala un personaggio scoglionato e disilluso, vero, credibile, dipingendone un’evoluzione da nullità ad eroe vivissima, palpabile, toccante; la coprotagonista Ilenia Pastorelli al suo primo film passa dal Grande Fratello direttamente al David di Donatello con un’interpretazione sorprendente e convincente in grado di commuovere e suscitare tenerezza e semplicità al primo sguardo, un’autentica rivelazione.

Ma come la regola aurea vuole, la vera forza del film sta sempre in un villain all’altezza, un rivale col quale non si scherza, un nemico iconico: in questo il bravissimo Luca Marinelli mangia decisamente in testa a tutti. Il suo Zingaro, criminale borgataro da due soldi che ambisce ad un posto fra i grandi, ossessionato dal desiderio di popolarità, dal bisogno di sentirsi importante, è un meraviglioso e brutale ritratto dell’Italia dei giorni nostri, il piccolo nessuno traviato dallo squallido mondo dello spettacolo e malato di protagonismo che con la sua ferocia e la sua umanità corrotta funge da motore all’intera vicenda, permettendo al nostro eroe di diventare tale.
LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT è un film che vince e grazie ai suoi protagonisti delineati perfettamente e alla sua ambientazione urbana, una Roma di vicoli e zone malfamate che via via si arricchisce di bellezza e situazioni e colori, arrivando ad esplodere nell’agrodolce finale.
Non un film supereroistico classico, questo è certo, complice anche un budget neanche lontanamente paragonabile agli standard hollywoodiani, ma una pellicola sporca e vera, quasi realistica nella sua potenza d’immagine e realizzativa, che commuove, conquista e vince.
IN BREVE: Un film vero, vibrante, intenso e senza fronzoli, diretto benissimo e recitato da dio. La rinascita del cinema fantastico italiano: Daje Jeeg! Và e ammazzali tutti! 

VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 9

Nessun commento:

Posta un commento