martedì 16 febbraio 2016

RECENSIONE: THE HATEFUL EIGHT - SPARARE A SALVE



Cosa si diceva la volta scorsa riguardo le aspettative? Che sono un’arma a doppio taglio, quando va bene un power-up a pochi metri dal traguardo, quando va male (ossia la stragrande maggioranza delle volte) un dissetante bicchiere di urina calda in pieno deserto. Al costo non indifferente di 8,50 euro + prevendita.
Poi arriva Quentin col suo solito stile revisionista, fa testa o croce e la moneta s’impianta a forza per il lato lungo.
Segue SPOILEROSISSIMA recensione del nuovo, riuscito a metà, lungometraggio di Quentin Tarantino


The Hateful Eight, chiariamolo subito, NON è un western: ne utilizza l’ambientazione e i costumi, i tòpoi e gli stili narrativi dei registi che hanno fatto la storia del genere, ne sfrutta il più grande compositore di sempre, strizza entrambe gli occhi a decine di pellicole di Leone e Hawks e Corbucci, ma decisamente non è un western.
The Hateful Eight è un film strano, ricercato…forse fin troppo ricercato, tanto da apparire forzato: per capirci, dove The Revenant è palesemente studiato a tavolino per dare a Di Caprio l’opportunità di vincere quello stracazzo di Oscar,  il film di Tarantino nella sua interminabile, infinitamente prolissa prima parte è palesemente studiato a tavolino per farlo sembrare un film di Tarantino. Riuscendoci a fatica.
Chiaro? No? Fa niente, ci arriviamo.
La storia di The Hateful Eight è un racconto in capitoli nel classico stile Tarantino (anche se molto più lineare del solito) che per raggiungere il suo apice, per iniziare a raccontarti quello che davvero vuole raccontarti, la prende larghissima come la Serbelloni Mazzanti Viendalmare, o come il TomTom quando devi andare da A a B in linea retta, ma lo stronzo ti fa fare un percorso alternativo fra deviazioni, sterrati, pozze di lava e pollai attraversati di sfruso “perché si fa prima”.

Una diapositiva del percorso alternativo

Ecco, a tutta la prima parte Tarantino ha applicato il suo concetto di “si fa prima”, dove “suo” è chiaramente quello del TomTom.
Perché ok la presentazione dei personaggi, siamo i primi a non volere gli eroi macchietta, vogliamo personaggi approfonditi, i classici personaggi complessi del regista che si presentano a noi parlando tra loro del più e del meno, e tutto giusto tutto perfetto. MA UNA FOTTUTA ORA IN CARROZZA ANCHE NO.
Perché come mai Kurt Russell venga chiamato Il Boia nell’ambiente dei cacciatori di taglie lo si spiega in 30 secondi pure nel trailer.
Perché quanto sia cazzuto Samuel L. Jackson (mastodontica la sua interpretazione, va detto) lo si capisce dall’ingresso in scena sui cadaveri e da quelle prime due occhiatacce di taglio che tira a favor di camera nei primi minuti.


Perché per capire quanto sia fuori di melone Jennifer Jason Leigh basta guardarla, e anche qui, quello che si poteva dire senza spoilerare nulla del personaggio lo ha detto il trailer con due inquadrature.
Poi che Walton Goggins sia un coglione lo si capisce appena apre bocca, anche prima che parta col suo lungo omaggio a Jerry Lewis.
Ora ditemi allora che bisogno c’era di cazzeggiare per una fottutissima ora dentro quella maledetta carrozza?!
E giù di “guada che il negro ha una lettera di Lincoln”, e “davvero hai una lettera di Lincoln fammela vedere”, e “no non te la faccio vedere”, e “tu sai chi è lui”, e “lui quando era confederato aveva fatto un casino in quel fortino”, e “no davvero ma stai scherzando”, e “no guarda è davvero lui ti giuro”, e “maddai pensa che coincidenza, io combattevo dall’altra parte”, e “tu sei il figlio di tizio che era un coglione quindi tu sei un coglione alla seconda”, e che due coglioni lo dico io perché sono passati venticinque minuti di controcampi fissi e già non ne posso più della mia vita e vorrei vedervi morti subito tutti quanti.
Dov’è finito il Tarantino che in due minuti ci faceva capire il legame d’amicizia di due persone e tutto quello che c’era da sapere sul loro rapporto semplicemente facendoli sproloquiare delle differenze fra Amsterdam e Los Angeles, dal sistema metrico decimale ai coffee shop?


Quest’interminabile momento-verità-spetegulèss da sala d’attesa della parrucchiera dura un’ora, forse di più, forse di meno ma sembra molto di più, appesantisce i testicoli dello spettatore e, di fatto, ti ammazza il film in partenza in maniera brutale, ma soprattutto sottolinea quanto i dialoghi immortali de Le Iene e Pulp Fiction non fossero proprio tutta-tutta farina del sacco di Tarantino, e che un certo Roger Avary forse dovrebbe tornare a spiegargli come funziona la faccenda della “sceneggiatura brillante”.
Fortuna che dopo un’ora nella neve a dire cazzate senza senso finalmente arriviamo all’Emporio di Minnie e il film inizia davvero, ed era anche la cacchio di ora.
Qui The Hateful Eight tira fuori il suo meglio, ed è un meglio con le palle, come quell’antifurto inutile degli anni 90: il film, da Chiacchiere dal parrucchiere della Signora del West diventa una specie di remake de La Cosa di Carpenter (sempre sia lodato, lui e il film) e del Dieci Piccoli Indiani di Agatha Christie, spingendo la narrazione nel territorio del giallo d’altri tempi/horror d’isolamento.
All’Emporio di Minnie abbiamo dei personaggi in cerca d’autore che completano in modo decisamente convincente il parterre di comprimari perfetto, un classico tarantiniano qui forse ai massimi livelli.
Abbiamo quindi un’ambientazione chiusa, una singola stanza piena di gente sopra le righe dove Quentin è finalmente nel suo habitat (e si vede) perchè la storia ti butta subito addosso il dubbio più antico e più efficace del mondo: chi non è chi dice di essere? Di chi fidarsi? Perché c’è ancora così poco rosso sulle pareti?


Il gioco delle identità si protrae per un bel po’ ma è un gran bel gioco ed è ben diretto, con Jackson che giganteggia su tutti e s’inventa una gigantesca partita a Cluedo dal niente, con Kurt Russell che a momenti sospetta perfino di se stesso, la Leigh totalmente fuori controllo, un Tim Roth sopra le righe che scimmiotta un po’ il Christoph Waltz di Django, un Bruce Dern particolarmente incarognito, un Walton Goggins particolarmente coglione e un Michael Madsen spettacolare nel suo tipico ruolo da Michael Madsen, che tutti amiamo.
Qui il tempo vola, anche se Jackson si perde un po’ via con la storia del soffocotto forzato del figlio del Generale, una roba che a sentirla e tenendo a mente che l’ha scritta Tarantino due domande su fino a quanto e in che modalità gli piacciano gli afroamericani te le fai, ma vabbè.
Altra chicca tarantiniana, dicevamo, è la narrazione frammentata e, per quanto questo sia uno dei film più lineari del regista, prima del tripudio finale c’è un intero capitolo di retcon/flashback che mi ha troppo ricordato la scena del cesso de Le Iene, dove finalmente si scopre chi cazzo sia quell’individuo nel sottoscala che ha appena polverizzato gli attributi di Jackson, cosa voglia e in ultima istanza perché diavolo debba liberare a tutti i costi quella schizzata della Leigh, ormai più grumo di sangue che donna.
Il racconto apre una parentesi che, incredibilmente, arricchisce molto il tutto, ridisegnando completamente i personaggi bislacchi trovati dai nostri all’Emporio di Minnie e dando al tutto un respiro molto più ampio.



Ci sarebbe da domandarsi perché quel pirla di Channing Tatum abbia dovuto aspettare così tanto prima di fare una cacchio di mossa, con tutto che dopo la morte a spruzzo di Kurt Russell (e del povero O.B. che non c’entrava niente) la banda del buco fosse in stragrande superiorità numerica, ma non c’è tempo perché bisogna far scorrere quei 20 galloni di sangue, che poi lo spettatore medio di Tarantino ci rimane male se non finisce tutto in massacro, e allora ci s’infila un triello un po’ sbrigativo ma col sangue al ralenti che fa molto effetto, perché si, e i protagonisti che ormai hanno più buchi di una grattugia riescono a fare di tutto prima di crepare, compreso darsi un cinque alto virtuale all’ennesima rilettura della lettera di Lincoln.
Gli altri raus, a ridipingere i pavimenti di rosso, circolare.
A ripensare ai primi due interminabili capitoli mi parte ancora l’abbiocco pesante, mentre dal terzo al quinto il film ingrana una scelta azzeccata dopo l’altra, un meccanismo fluidissimo di dialoghi ispirati e battute feroci e bellissime, Very Tarantino Style.
L’ultimo capitolo, beh, l’ultimo capitolo è rosso, traforato e penzolante, e magari poteva venirne fuori una chiusura migliore, ma ci si può accontentare.
Si può dire che The Hateful Eight sia un film riuscito? A mio avviso no, troppo squilibrato nell’incedere della narrazione, con un finale che sembra un po’ tirato via, senza una scena potente che chiuda il tutto rimanendo impressa nella memoria collettiva come quella dei Bastardi o di Pulp Fiction.
The Hateful Eight è decisamente un film riuscito a metà. C’è solo da evitare come la peste la metà sbagliata.
 
IN BREVE: Una storia semplice ma interessante raccontata attraverso personaggi azzeccati ma dal ritmo troppo altalenante, che prima d’ingranare si perde in cazzate prolisse e soporifere.
Una parte centrale strepitosa non sorretta da un inizio comatoso ed un finale un po’ raffazzonato.
Tarantino ha fatto certamente di meglio.

VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO:
6 ½

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