mercoledì 17 dicembre 2014

THE HUNGER GAMES E LA SERIALITA' NEL CINEMA


A mia discolpa, c’è da dire che non sono mai stato un nemico della serialità.
Lasciando da parte le serie tv che negli ultimi 10 anni hanno subìto una megaevoluzione assurda, ottantasucento in positivo, la serialità nel cinema è qualcosa che molti puristi guardano storto, un po’ come una persona normale guarderebbe un Fabrizio Corona incontrato a caso per strada...



Tanto per chiarire
Quando noi neotrentenni eravamo piccoli le grandi serie erano AlienGuerre StellariRitorno al FuturoDie Hard, NightmareScuola di Polizia, più altra robe ovviamente che tanto per fare numero buttava fuori una porcata uguale all’altra, tipo Venerdì 13, ok…ma oggi?
Quali sono oggi le grandi serie cinematografiche che caratterizzano il millennio che ci accompagna già da 14 anni e che già ci sta fortissimamente sulle gonadi?
C’è stato il grande successo di Harry Potter e de Il Signore degli Anelli, primi della lista e neanche ultimi degli stronzi, giusto per, ma il punto cruciale della questione è: perché fare serie? Per i soldi, ebbravo genio, ok, siamo tutti d’accordo, ma cosa caratterizza un’ottima serie cinematografica, cosa la distingue da tutta la rumenta capace solo di segnare una tacca ad ogni capitolo tanto per fare (chi ha dettoResident Evil)?
Esatto: la storia. Se hai una bella storia, ed è una storia valida, con una sua evoluzione, con un suo perché, un significato ,un maledetto cazzo di senso di esistere, allora si, io sono FAVOREVOLISSIMO ad una serializzazione.
E’ questo il caso (per quanto riguarda il sottoscritto che NON HA MAI LETTO I ROMANZI e che quindi non sa come la storia procederà e dei vari “ma nel libro va così” e “ma la storia è diversa” se ne sbatte altamente, godendosela pertanto di più) della serie cinematografica di Hunger Games.


Analizziamo la cosa brevemente.
Quando ancora l’infido pericolo dei vampiri catarifrangenti e dei samoani con irrimediabili problemi tricotici (quella piaga per l’umanità tutta che rispondeva al nome di Twilight e al cognome di Merda) non era stato del tutto debellato, il vero problema era riuscire a trovare nel panorama cinematografico di genere un buon motivo per ritrovare la fiducia nel futuro.
Fortunatamente quell’anno giunse la risposta.
The Hunger Games, per quanto sempre appartenente al genere fantastico e in qualche modo afflitto da un paio di turbe sentimentali di troppo, era la risposta che stavamo aspettando: nuovo, intenso, semplice ma profondo, bastardo, commovente, emozionante, quasi realistico nella sua estremizzazione del futuro cupo che ci aspetta e pieno di una satira velenosa del capitalismo e dei mass media che mmmammamia, da quanto mancava?
Certo c’erano cose da migliorare (il climax) o da eliminare proprio (quei cazzo di barboncini mutanti, dove vanno vanno fanno sempre danni, chiedere a Ang Lee e al suo cacchio di Hulk) ma il resto era ottimo.
Passa solo un anno e la lezione è stata chiaramente recepita, perché The Hunger Games – La Ragazza di Fuoco è davvero un signor film.
Non sto a raccontarlo, l’avete visto tutti, voi e pure i sassi, ma il fattore più importante che emerge e si fa beffe di (quasi) tutte le altre trilogìe/genealogìe/nevralgìe viste in questi anni è quello che riguarda l’evoluzione della storia.

Julianne Moore e il compianto Philip Seymour Hoffman.
Compianto si, però cazzo pure tu con 'sti speedball...
La storia di Hunger Games, sarà per la capacità di acchiappare lo spettatore grazie alla sua vena insurrezionalista, sarà perché riesci ad affezionarti ai personaggi che ti sbatte in faccia e nell’arena, toh, ammazzatevi, sarà perché le tematiche e le ambientazioni grigie e cupe da delirio postatomico contrapposte a quel merdosissimo e infame Grande Fratello condotto dall’Alessio Marcuzzo con la dentiera di The Mask le sentiamo molto più vicine e (Dio non voglia) prossime a noi, piuttosto che una meravigliosa story arc spalmata su sette anni in una scuola di magia o delle battaglie per liberare una Terra di Mezzo che non è neanche da queste parti, tutto quello che volete ma per com’è impostata su pellicola funziona alla grande, perché è un meccanismo maledettamente perfetto.
Il primo capitolo getta le basi, il secondo le sconvolge, e il terzo…mammamia il terzo capitolo.


Filmicamente diviso a metà, come da pessima abitudine della Hollywood alla canna del gas di questi tempi, Hunger Games – Il Canto della Rivolta (Parte Uno)non perde tempo a raccontarti la rava e la fava del primo e del secondo capitolo, certo la nomina, certo le rivanga reinserendole in discussioni pertinenti e mai come spiegoni reiterati a nastro, e ti scaraventa in piena rivolta, alle porte del conflitto, una situazione che è già oltre il punto di non ritorno in cui un governo dispotico filonazista e figlio di troia cerca di sedare la rivolta, con i ribelli trovano in Katniss Everdeen la loro arma di punta mediatica e gli altri che rispondono specchioriflesso utilizzando l’ex campione del popolo contro di loro; la resistenza inizia una campagna mediatica di smascheramento televisivo del governo dai distretti distrutti, Capitol City ribatte con esecuzioni in piazza in mondovisione; i vari distretti cominciano ad insorgere pesantemente uccidendo le guardie in bianco prese di peso da Vanquish, quelli s’incazzano e fanno una strage, in un botta e risposta dolorosamente devastante e logorante, in quella che ancora non è una guerra ma di sicuro lo sta diventando.

Non è tutto stronzo oro quel che luccica.
Ma il visagista delle dive, quello si, è truccaaaatiSSimo
Come sentiva serpeggiare il cambiamento ne La Ragazza di Fuoco dove poteva quasi toccalo con mano e capire, scena dopo scena, che le basi gettate che dava ormai per scontate non sarebbero più state valide, lo spettatore avverte in questa prima parte de Il Canto della Rivolta filmico un’evoluzione sofferta e pianificata in modo magnifico, tenendo pure conto che si, l’azione c’è, i colpi di scena non mancano, ed il tutto appare agli occhi dello spettatore imbecille-nel-sensoche-imbelle come me (cioè quello che NON ha letto neanche un romanzo e quindi è del tutto spoiler free) come una magnifica partita a scacchi, dove ognuna delle due fazioni posiziona i pezzi, lasciandocene qualcuno sul terreno di gioco, in attesa di portare l’affondo finale, affondo che probabilmente arriverà nella seconda parte, nella speranza che la Universal ci faccia la grazia di non spezzettare l’ultimo film in altre due come si è vociferato ultimamente.
Staremo a vedere.
Quel che conta è che il film mette in scena l’evoluzione di una storia inizialmente “semplice”, una fantascienza politica anni ’70 come ormai il cinema non vede più da anni inscatolata come blockbuster e venduta ad un pubblico che di questo tipo di film ha solo una vaga memoria, un’eco di racconti e citazioni di spettatori più attempati che cercano di convincere i propri figli che “Si, 40 anni fa il Cinema di fantascienza era qualcosa di un attimo più approfondito, diverso, serio, che trasmetteva messaggi forti e lasciava pensare, come oggi voi non avete idea…”


E quindi uno spera con tutte le sue forze che il quattordicenne che si è catapultato al cinema in forze, quello col cervello collegato in Lan con gli altri 7 compari, possa capire.
Possa capire che dietro quella bravissima attrice di Jennifer Lawrence e a tutti gli ottimi comprimari, dietro a quelle esplosioni, dietro ad ogni freccia e ad oggi orribile visione di questo conflitto che si annuncia una carneficina ci sia molto di più; che possa capire che non si trova in quella sala semplicemente perché ha davanti il n°X di una serie che alla maggioranza dei suoi amici piace e perché i biglietti per Scemo e Più Scemo 2, cazzo, erano finiti; che possa capire il significato che quegli stacchi propagandistico televisivi stile Barbara d’Urso siano qualcosa di agghiacciante, che quel fottuto attrezzo in HD che vomita in faccia a chiunque lo veda bugie create ad hoc da esperti di grafica e montaggio è il male per come viene usato, che il messaggio che diffonde è il male, che la finzione ha fatto il giro ed ha soppiantato la realtà esasperandola, soggiogando le menti dei suoi deboli spettatori imponendo tematiche idiote per sviare il pensiero di massa a qualcosa d’innocuo, come a un falso divertimento per spettatori fantasma conciati da imbecilli schiavi di mode ormai fuori controllo.
La metamorfosi, il cambiamento continuo, l’evolversi naturale di qualcosa che se fosse stato reiterato anche solo mezza volta (i giochi nell’arena) avrebbe spezzato il giochino e sarebbe venuto giù tutto, come una volta supertecnologica colpita da una piccola, semplice freccia elettrificata.
E io resto lì, esaltato da quello che ho visto, da un cinema che pensavo di non vedere più, da un messaggio così forte inserito in un contesto da Blockbuster che è anche una speranza per il cinema di domani, ma anche allibito nel sentire gente che si lamenta perché “si chiama Hunger Games ma non ci sono gli Hunger Games!”, da gente che il messaggio non lo coglie e vede solo i cattivi parrucconi col cerone contro gente in un silos che “fanno la rivoluzione come in V per Vendetta!”.
Non so come reagire, non so come comportarmi, sono e mi sento una minoranza solo perché voglio guardare un po’ più in là, perché mi esalto per una storia che ha qualcosa da raccontare una volta tanto e che lo fa in un modo più attento al contenuto che alla copertina, ma in fondo ne riconosco l’importanza ed è quello che conta, in fondo so che sono questi i momenti per i quali sarà valsa la pena aspettare tanto.
Finalmente abbiamo anche noi la nostra ghiandaia imitatrice.



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